lunedì 16 aprile 2012

Io, terrona


Sembrava una mattinata come le altre. Essendo già la fine di Aprile, le ampie finestre dell’aula erano aperte per far entrare la luce e i tiepidi raggi solari.
I ragazzi erano intenti al lavoro, quando furono interrotti da un tocco alla porta: “Signora, il dirigente  ha bisogno di parlare con lei in presidenza”, mi disse il bidello.
Mentre percorrevo il corridoio, mi domandavo cosa potesse volere da me il preside e presto la mia curiosità venne soddisfatta.
“ Si accomodi, signora!”
 I soliti convenevoli. Poi continuò: “ Da domani una nuova alunna farà parte della sua classe. E’ un bambina nomade, si chiama Tamir”
 “ Bene! Quanto si fermerà ? “ chiesi.
“ Finirà l’anno da noi; questo è il quaderno dove annoterà le presenze,  le assenze e l’eventuale promozione o bocciatura”.
La comunicazione finiva lì, perciò me ne tornai in classe con quel quaderno un po’ liso tra le mani.
Notai i ragazzi stranamente silenziosi, volti seri, occhi curiosi.
Fui io ad interrompere il silenzio: “ Ragazzi, da domani avrete una nuova compagna, si chiama Tamir.”
Alessia alzò la mano: “Da dove viene?”
“ Questo non lo so. E’ una bambina nomade. Mi auguro che l’accoglierete bene”.
A quell’affermazione nessuno parlò; i bambini si scambiarono degli sguardi molto eloquenti, poi, improvvisamente, come un passaparola, tutti alzarono la mano, tutti avevano qualcosa da dire.
“ Maestra, perché proprio da noi? Le quinte classi sono molte”osservò Vito.  Io spiegai che probabilmente il dirigente riteneva noi in grado di assolvere bene il difficile compito dell’accoglienza.
Alice :” Io non la voglio vicino” e fu tutto un coro: nessuno la voleva seduta accanto a sé.
Io mi sentivo enormemente delusa dall’ atteggiamento dei miei alunni e pensavo con  amarezza di aver fallito il mio progetto educativo.
“ Maestra, io abito al Lungomare San Vito e vedo i nomadi che si fermano lì; sono sporchi, puzzano e i bambini chiedono l’elemosina” osservò Simone.
“ Visto che la pensate così, è arrivato il momento che vi racconti una lunga storia: il fatto è accaduto proprio a me- guardai l’orologio, poi aggiunsi- tanto ormai non sarà più possibile proseguire il lavoro interrottoconclusi .

<< Avevo dodici anni e frequentavo con successo la seconda media.   
Quel giorno, si era alla metà di Novembre, tornai dalla scuola così furiosa che gettai la cartella a terra in malo modo, sbuffando: “ Non ne posso più di questa professoressa di lettere! Nessuno ha saputo rispondere ad una sua domanda e lei se l’è presa solo con me”Ero talmente adirata che non avevo neanche notato l’espressione sorridente  del volto di mia madre la quale, sventolandomi sotto il naso un foglio di carta, mi consolò: “ Non prendertela! Se fa così significa che tiene particolarmente a te”.
“Che cosa è?” chiesi di malumore dinanzi a quel pezzo di carta.
“ E’ una lettera della zia Rosina. Ci invita a trascorrere le vacanze di Natale da lei a Milano” fu la sua risposta. “ A Milano? Oh, che bello! Oh, che bello!” E. ormai dimentica della rabbia di prima, felice cominciai a saltellare per la stanza.
“ E   quando dovremo partire?” chiesi ancora
“ Non appena inizieranno le vacanze natalizie”
Come potete immaginare non stavo in me dalla gioia. Conoscere Milano era un mio vecchio sogno. Tante volte le cartoline che mia zia mandava da quando viveva in quella città mi facevano sognare. Vi erano raffigurati il Duomo, il Teatro alla Scala, la Galleria; tuttavia io ero convinta che vederli di persona sarebbe stata un’altra cosa! E a breve tempo avrei avuto l’opportunità di farlo!
Il tempo trascorse molto in fretta e, prima di quanto pensassi, si arrivò in prossimità del  Natale; mia madre aveva già da qualche giorno cominciato a preparare la valigia e, finalmente, arrivò il giorno fatidico, tanto atteso anche  perché non avevo mai viaggiato in treno fino ad allora.

La stazione di Palermo, da dove si prendeva il treno per Milano, era affollatissima. Arrivavano persone di ogni tipo, perlopiù povera gente i cui visi tristi e gli abiti malandati la dicevano lunga sulla loro povertà. Erano emigranti che andavano verso il nord dell’Italia per cercare un lavoro e una vita migliore.
Prendemmo posto in uno scompartimento che era già occupato da una famiglia di cinque persone: padre e madre, una ragazzina della mia stessa età e due bambini di poco più piccoli. Il signore molto gentilmente si offrì di sistemare la nostra valigia nell’apposito spazio, poi ognuno si sedette al proprio posto, guardando distrattamente fuori , così, per darsi un contegno.
Per un tempo che valutai interminabile nello scompartimento regnò un imbarazzato silenzio, infine fu la signora ad interromperlo: erano tornati a Bagheria, loro città d’origine, a trascorrere un breve periodo di ferie prima di Natale, per via dell’organizzazione dei turni nella fabbrica di cartoni dove il marito lavorava. Mia madre per gentilezza chiese se abitavano a Milano. No, la signora rispose che vivevano a Cinisello Balsamo; si trovavano molto bene perché avevano fatto amicizia con i siciliani e i meridionali che abitavano anch’essi in quel paese.
“ Avete come amici gente del luogo?”domandò ancora mia madre. La signora con una certa reticenza disse che scambiava un saluto con qualcuno, ma niente di più.
A quel punto mi rivolsi alla ragazzina di cui non conoscevo ancora il nome, chiedendole se fosse mai stata a Milano; lei mi rispose che il padre gliel’aveva portata l’estate precedente. Sì, Milano era grande e bella; le erano piaciuti i suoi monumenti, ma era troppo grigia!
Uscimmo sul corridoio del vagone e ci divertimmo a guardare all’esterno il paesaggio che scorreva sotto i nostri occhi; ciò che colpì la nostra fantasia furono i paesini arroccati sulle verdi pendici delle colline e dei monti le cui case dai tetti rossi, viste dal treno, sembravano minuscole, come quelle che si sistemano nei presepi.
Quel viaggio sembrò meno noioso e meno lungo e le ore trascorsero più velocemente tra chiacchiere e racconti. Prima dell’arrivo alla stazione di Milano ci scambiammo gli indirizzi con la promessa reciproca che ci saremmo fatti sentire.

Ragazzi, non voglio annoiarvi con il racconto dell’arrivo alla stazione di Milano, dell’incontro con i miei parenti e di quei primi giorni trascorsi a casa  durante la festa natalizia. Voglio invece parlarvi delle mie sensazioni .
Quando mio zio aveva del tempo disponibile, mi portava in giro; per me tutto era nuovo, tutto era bello e interessante: lo sferragliare dei tram che andavano sulle rotaie, i filobus che  camminavano attaccati a dei fili elettrici, gli alti palazzi che fiancheggiavano le ampie vie alberate, persino i semafori…
Osservai incantata il Duomo che trovai imponente e bellissimo con quei pinnacoli e quelle bianche guglie, svettanti verso il cielo e somiglianti ad una foresta pietrificata; ma ciò che, più di ogni altra cosa, colpì  la mia attenzione furono i negozi della
Galleria, elegantissimi e sfavillanti di oggetti preziosi mai visti e mai immaginati e le signore, belle, raffinate, avvolte nelle loro lussuose e calde pellicce e noncuranti del resto del mondo. Insomma, tutto mi incuriosiva, mi meravigliava e, chissà perché, suscitava in me uno strano senso di disagio.
Ma ciò che mi infastidiva oltremodo era la nebbia che, grigia e fumosa avvolgeva tutto e impediva ogni visuale, cancellando qualsiasi punto di riferimento e facendo sentire  soli e sperduti, come in un deserto.
Così un pomeriggio, quando mia madre ed io ci recammo da sole in visita da uno zio che  viveva a Milano, al ritorno ci trovammo in grande difficoltà perché si era levata una fittissima nebbia.
“ State attente! Al ritorno il vostro punto di riferimento sarà il campanile della chiesa  di Viale Argonne” aveva raccomandato mia  zia prima che uscissimo. Ma, appena scese dal tram, ci guardammo in giro costernate: dov’era il campanile? La fitta nebbia lo nascondeva alla nostra vista.
Mentre ci domandavamo come arrivare a casa, da quel grigiore emerse la cupa figura di un uomo.” Scusi, signore, mi può indicare la Via Mezzofanti?”chiese timidamente mia madre; ci accorgemmo subito dell’aria di infastidita insofferenza che trapelava dal viso dello sconosciuto che, avendo riconosciuto la cadenza del nostro parlare, ci aveva già classificate” terrone”; tuttavia con il suo atteggiamento sprezzante e con il suo marcato accento milanese, ci diede l’indicazione richiesta. Tale episodio lasciò dentro di me dei sentimenti contrastanti: mortificazione per l’umiliazione subita e un vago senso di ribellione.

Poco dopo il Capodanno un’altra novità mi aspettava: la neve. Era il primo mattino quando la vidi scendere da dietro i vetri della finestra; le falde, bianche e delicate come petali di fiori, si adagiavano lievemente al suolo, dove però immediatamente si trasformavano in una poltiglia nerastra e sporca, contaminata dal fumo delle ciminiere e dagli scarichi dei mezzi di trasporto.
Ricordo che erano da poco passate le undici del mattino, quando sentii festose voci di ragazzi e gioiose risate provenire dal cortile. Mi affacciai e notai con stupore che lì la coltre nevosa era rimasta candida e soffice, per questo i ragazzi del condomino vi si erano radunati e giocavano: in un angolo un gruppetto tentava di dare forma ad un pupazzo, mentre più in là i bambini di un altro gruppo si  lanciavano palle di neve.  
Decisi così che mi sarei unita a loro e corsi da mia madre a chiedere il permesso di scendere. Mia zia era visibilmente perplessa:” Ma se fino a ieri hai detto che quando incontri qualcuno di quei ragazzi , hai l’impressione di essere guardata male!” osservò.  “ Forse, come hai detto tu, era solo un’impressione!” esclamai fiduciosa. 
Mi preparai così in fretta che, quasi senza rendermene conto, mi ritrovai in cortile.
Avvicinatami ad una ragazzina più o meno della mia età, chiesi timidamente se potevo unirmi a loro nel gioco; notai una certa esitazione nel suo sguardo, ma in quel momento si aprì una finestra del primo piano e una giovane donna, dal viso ossuto e dagli occhi di ghiaccio gridò:” Federica, ricordati quello che ti avevo raccomandato”.   
L’esitazione dallo sguardo della ragazzina scomparve, mi squadrò dalla testa ai piedi spietatamente e infine, con voce decisa e scandendo bene le sillabe, pronunciò il suo verdetto:” Tu non giochi con noi, terrona!” A quelle parole fu come se il mondo mi fosse crollato addosso. Girai immediatamente le spalle per non dare loro la soddisfazione di vedere le lacrime che, abbondanti, affioravano ai miei occhi. E, proprio in quello stesso istante, una grossa palla di neve mi colpì alla schiena. Con indicibile sgomento udii un coro di voci urlanti:” Terrona! Terrona!
No, quello non era uno scherzo!
Senza riuscire a capire come, mi ritrovai in camera, seduta sul bordo del letto: piangevo per la vergogna, per l’umiliazione e per l’orgoglio ferito.
Mia madre,per consolarmi, mi teneva la mano, mentre mia zia mormorava che me l’aveva detto. Io non vedevo e non sentivo nulla , chiedevo ad alta voce: “ Perché? Che cosa ho di diverso da loro?”  Furono domande senza risposte.
Da quel triste giorno non vedevo l’ora di tornare nella mia piccola città del profondo Sud, dove non c’erano sfavillanti vetrine né affascinanti e raffinate signore avvolte nelle loro costose pellicce, dove il tempo trascorreva lento e monotono, dove non accadeva mai nulla d’importante,  ma dove mi sentivo protetta, amata e rispettata per quello che ero: una persona.>>

Quando terminai il racconto mi resi conto che la voce mi tremava per la commozione e tutti i bambini avevano gli occhi lucidi; alcuni piangevano
Infine Alice si alzò e propose: “ Da domani Tamir siederà accanto a me, poi a turno, se i compagni sono d’accordo, starà insieme agli altri. Ti promettiamo che l’aiuteremo fino alla fine dell’anno scolastico nello svolgimento del lavoro”.
Ero soddisfatta. Quel racconto aveva sortito l’effetto sperato ed era stato molto più efficace di uno sterile discorso sulla parità dei diritti umani.
Tutto sommato ogni esperienza, anche la più negativa, vale la pena di essere vissuta.        

Francesca Adamo